Nicola Rizzoli: “Bisogna andare sempre al Var. Spiegheremo tutto live”

Nicola Rizzoli, ex arbitro e superdesignatore di Serie A e Serie B, ha parlato ai microfoni del Corriere dello Sport rilasciando una lunga intervista. Di seguito le sue dichiarazioni:

Nicola, ci sei tra cinque minuti?  «Sono al telefono con Rosetti, facciamo dieci».
Una sospensione così simile a quella di una verifica al Var da parte di Mazzoleni o Orsato e il 49enne superdesignatore di A e B è tutto nostro.

Parlate ogni giorno tra voi ex arbitri? Tua moglie cosa dice?
«Ex arbitri mi piace un bel po’, avresti potuto dire dirigenti, hai scelto ex».

La vocazione innanzitutto. «Ex vocazione, io manco l’avevo, volevo giocare a calcio, ero anche bravino. Lame-Ancora, Allievi Regionali. Me la cavavo, non avevo i piedi fucilati…».

Come Collina, ad esempio. «L’hai detto tu. È stato tutto così casuale. Ricordi del Liceo: frequentavo l’Artistico, in seguito avrei fatto architettura a Firenze, il lunedì mattina discutevo con toni non sempre urbani con il mio compagno di banco, Simone Checchi. Simone arbitrava i ragazzi e io contestavo le decisioni di chi aveva diretto la mia partita. “Prova tu a fare l’arbitro…”, a forza di sentirmelo ripetere l’ho preso in parola. E a ventinove anni ero in serie A. Sedici stagioni tra A e B e in precedenza tre di C».

Eri considerato l’arbitro del dialogo. Talvolta discutibile e discusso, vedi gli episodi con Totti e Bonucci. «Se potevo dialogare con i calciatori non mi tiravo indietro. Altrimenti, chiusura totale».

L’errore indimenticabile? «Derby di Milano, concessi un rigore inesistente… Ma l’indimenticabile lo commisi in Atlético Madrid-Barcellona di coppa. Diedi una punizione dal limite invece del rigore che, se realizzato, avrebbe qualificato il Barcellona. Non mi accorsi del fatto che il giocatore dell’Atletico aveva i piedi fuori dall’area ma la mano con la quale aveva colpito il pallone era all’interno. Vedi, se ci fosse stato il Var…».

Già. Al Var bisogna andare sempre, quando l’episodio è dubbio, oppure tocca all’assistente al video richiamare l’attenzione di chi dirige. Dove l’ho sentita? «Sono le indicazioni, chiarissime, che ho dato ai miei».

In Juve-Napoli Mariani le ha disattese. Anche molti altri, in passato. «Ha sbagliato Mariani così come l’avar. Lo sanno benissimo anche loro. Io sono sempre stato favorevole alla tecnologia, assurdo che alle soglie del 2020 l’unico a non rivedere le immagini fosse proprio l’arbitro».

Qualche direttore di gara è rimasto disorientato dalla novità. «Siamo alla quarta stagione online, più una off-line. Il disorientamento io non l’ho avvertito neppure all’inizio, per arrivare a un utilizzo ottimale del Var erano e sono necessari addestramento, verifiche, confronti, correzioni. Posso garantirti che la tecnologia ha notevolmente ridotto il numero degli errori e non mi riferisco soltanto al fuorigioco e al gol non gol. I numeri, le percentuali lo confermano. Devi anche considerare che due anni fa c’è stata una profonda rivisitazione del regolamento, è cambiata ad esempio l’interpretazione del fallo di mano. Ecco, proprio su questo punto mi auguro che si possa sviluppare una discussione ad alto livello. Tutto è perfettibile. Colpire il pallone con le mani, nel calcio, è antisportivo, ma è altrettanto vero che non si può pensare che il difendente possa intervenire con le braccia dietro la schiena, è un movimento innaturale e anche rischioso sul piano della stabilità».

Una delle tante accuse che vengono mosse ai nuovi arbitri è la mancanza di personalità. «È cambiato il mondo, non soltanto quello arbitrale. Il percorso di formazione in ogni settore è molto più articolato che in passato, un tempo non dico che ci si arrangiava ma quasi e, di riflesso, il temperamento, il carattere aveva un’incidenza superiore. Oggi è tutto molto più strutturato, si punta sulla professionalità. Se vuoi che risponda in modo ancora più chiaro: sì, gli arbitri di un tempo, come tutti del resto, ne avevano mediamente di più, di personalità. Ma non dimentico che si confrontavano con 6 telecamere e non con sedici, godendo di protezioni superiori, il non-visto prevaleva sul visto».

L’assenza del pubblico vi aiuta o danneggia? «Ci complica la vita. La complica perché il pubblico è un po’ il termometro della partita, la riusciamo a leggere meglio. Di positivo c’è che i calciatori subiscono minori pressioni e risultano meno nervosi. Nel vuoto, poi, si sentono di più i rumori, i contatti, le voci e anche alcuni apprezzamenti che con il pubblico presente l’arbitro non avrebbe potuto udire».  

La novità più recente è il fuorigioco tecnologico. «L’ho letto anch’io».

Questa è una balla. Sorride. «Il fuorigioco è un fatto oggettivo, la tecnologia può risolvere il problema delle interferenze nell’azione. In altre parole, il calciatore diventa macchina, vettore, si è così in grado di stabilire con precisione il momento della partenza del pallone e la posizione, nello stesso istante, di chi attacca».

Così non è più calcio, protestano i nostalgici. «Sì, lo so. Ma allora bisognerebbe ripartire da altre consapevolezze, quelle che contemplano e tollerano l’errore anche da parte dell’arbitro, non soltanto del difensore, del portiere o dell’attaccante. In Italia?, da noi? Impossibile. Io però sogno qualcosa di diverso».

E cioé? «Un deciso passo avanti lo farà compiere il chiarimento live. L’obiettivo è quello di riuscire a comunicare, in tempo reale, con l’esterno la decisione che si è appena presa, la motivazione della scelta. Naturalmente anche quella del Var».

Quanto vi ha cambiato il 2006? «Non capisco».

Calciopoli. «Ha impresso un’accelerazione straordinaria alla mia carriera, alcuni colleghi che mi precedevano nelle graduatorie di merito o per età non hanno più arbitrato perché sono finiti nell’inchiesta. Immagino, però, che non ti riferissi a me, ma alla categoria. Ci ha fatto molto male, rimettersi in piedi è stata durissima. Ricostruire un rapporto di fiducia con la gente, convincere gli appassionati che si era fatta pulizia, questi erano gli imperativi immediati. Qualche scoria ce la portiamo ancora addosso, ingiustamente».

Una volta mi dicesti che non avresti mai punito con la sospensione un arbitro che aveva sbagliato. E invece… «Voi le chiamate sospensioni, addirittura punizioni o squalifiche, fermare un arbitro che arriva da un errore grave è un atto di responsabilità al quale non posso sottrarmi: consente a chi ha sbagliato di ritrovare serenità, energie, l’equilibrio necessario. Credo molto nell’idea di squadra, purtroppo nell’ultimo anno non abbiamo avuto la possibilità di confrontarci de visu per via della pandemia. Il rapporto diretto è fondamentale, è un momento di crescita individuale e collettiva. Siamo 150, tra arbitri e assistenti, puoi immaginare la difficoltà di ritrovarsi in remoto da tutte le zone del Paese».

Ti capita mai di pensare che avete in pugno i destini di giocatori e società che valgono centinaia di milioni e che per questo dovreste guadagnare di più? «Non mi sembra il caso di parlare di soldi e compensi in questa drammatica fase della nostra vita. Altre sono le urgenze, altri i settori che hanno davvero bisogno di sostegno. Ammetto tuttavia che il discorso ha una sua validità».

Come hai giudicato il coming out di Orsato a Novantesimo minuto? «Possiamo parlare d’altro? Quello è un episodio di tre anni fa e io guardo avanti. A cosa serve tornarci sopra oggi?».

Siete appena passati dal muscolare Nicchi al più affabile Trentalange. «Dopo Calciopoli servivano i muscoli e i silenzi di Nicchi, in seguito si è avvertita la necessità di un cambiamento che la votazione ha evidenziato. Alfredo ha davanti a sé una serie di sfide decisive, il potenziale è buono, così come le idee e lo spirito che lo animano».

Le conflittualità interne tra governo e opposizione che per anni vi hanno caratterizzato sono ancora presenti? «A cosa ti riferisci?».

Beh, i favoriti del designatore del momento erano distanti in tutto e per tutto dai meno graditi. E quando cambiava il designatore, zac!, gli oppositori diventavano governativi e viceversa, e gli scompensi si avvertivano anche in campo. «Capisco. Le cose sono cambiate proprio perché oggi prevale il concetto di squadra, è chiaro che all’interno della squadra ci sono sempre le gelosie, le differenti ambizioni, i turbamenti, i malumori, ma sono assolutamente gestibili. Prevale il merito, non solo nelle intenzioni».

Non ti ho ancora chiesto cosa pensi… Mi interrompe. «… della sudditanza piscologica».

Mi hai letto nel pensiero. «La sudditanza è negli occhi di chi guarda. Un po’ kantiano, eh?».  

FONTE: CORRIERE DELLO SPORT

Foto in Copertina dal Web – Articolo a cura di Davide Teta

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