La Lazialità raccontata da un gentiluomo. A Veroli, in uno degli angoli incantati di una Ciociaria capace sempre di stupire, Noibiancocelesti.com a firma di Libero Marino, racconta la bellissima esperienza avuta con Riccardo Cucchi, per anni voce principe di Tutto il Calcio minuto per minuto.
“Il cronista romano, congedatosi dal proprio pubblico nel febbraio 2017 al termine di un Inter – Empoli, giunge puntuale all’appuntamento. Ci accomodiamo nei pressi di un locale a pochi passi dalla piazza dove qualche minuto più tardi, quando sulla bella cittadina ciociara sarà calata la sera al termine di una giornata a dir poco afosa, si celebrerà la quarta edizione del Festival dello sport raccontato, rassegna fortunata quanto interessante che ogni anno vede assurgere al proscenio tanti talenti del giornalismo nostrano. Sobriamente elegante, coerentemente col il suo inconfondibile stile che esibiva la domenica al microfono, Cucchi non si sottrae alle nostre domande alle quali risponde con un eloquio ancora incisivo e fascinoso. Una chiacchierata di circa quindici minuti sospesa tra passato e presente, dai suoi inizi come cronista, alla memorabile banda Maestrelli, fino ai giorni nostri, alla nuova Lazio di Sarri.”
Salve e ben ritrovato. Come nasce il Cucchi radiocronista?
“Iniziai nel lontano 1979, vinsi un concorso in Rai, allora molto severa e selettiva, e dopo vari corsi di formazione ebbi l’enorme privilegio di muovere le prime mosse da cronista accanto a mostri sacri come i vari Ciotti, Ameri, Provenzali e Bortoluzzi, maestri inarrivabili che hanno rappresentato i modelli cui mi sono sempre ispirato nella mia lunga carriera. Era una scuola meravigliosa e, forte dei loro preziosi insegnamenti, sono riuscito a coronare il mio sogno, quello di raccontare il calcio alla radio, da sempre il mio grande amore”.
Ha citato due grandi interpreti radiofonici, Ciotti e Ameri: chi era il più bravo?
“Enrico e Sandro, così diversi e complementari, erano due assi indiscussi. Ameri riusciva a imprimere alle radiocronache un ritmo forsennato, era uno straordinario trascinatore con quel timbro di voce dolce, molto persuasivo, il contrario di Ciotti, uomo di una cultura smisurata, dalla voce rauca, ma grande intenditore di calcio che aveva praticato in gioventù indossando anche la maglia della Lazio, di cui era un grande appassionato (al contrario del genoano Ameri), colmando l’assenza di ritmo con quelle straordinarie allocuzioni rimaste nella memoria collettiva”.
Rimaniamo a quegli anni, lei inizia la professione e l’Italia di Bearzot si laurea campione del Mondo: che ricordi conserva di quella incredibile impresa?
“Era un gruppo straordinario forgiato dal grande temperamento di Enzo Bearzot. Il tecnico friulano ebbe il merito di credere in una squadra bersagliata, dopo i tre celebri pareggi consecutivi, da critiche ingenerose che lo portarono al primo silenzio stampa della storia. Il clima era teso, ma lo scetticismo iniziale si trasformò rapidamente in un tripudio unanime di consensi dopo gli epici successi contro Argentina e Brasile, che spalancarono le porte della magica notte di Madrid. Una pagina irripetibile di calcio, scritta da talenti incredibili come Zoff, Rossi, Tardelli, Conti, gente che dava del tu al pallone. Sono passati ben 40 anni, ma l’eco di quelle splendide gesta sportive non si è ancora spenta”.
Tornando ai giorni nostri, perchè dopo l’Europeo l’Italia di Mancini non è riuscita a strappare il visto per l’imminente mondiale?
“A mio avviso manca il talento. Sono mancate una o due generazioni di talenti italiani, ragione per la quale Mancini oggi fa tanta fatica a mettere insieme una squadra tecnicamente all’altezza. Oggi si tendono a prediligere la tattica e la fisicità a dispetto della tecnica, il calcio deve tornare alle suo origini, un ragazzo che cresce all’interno di una scuola calcio deve poter sprigionare liberamente il suo talento, il suo bagaglio tecnico. La mia generazione è cresciuta a pane e football, prima ogni pertugio era buono per giocare a calcio, dalle parrocchie alla strada, i giovani di oggi sono invece distratti da altri interessi e questo non giova al movimento calcistico”.
Lei ha raccontato, nella sua lunga e luminosa carriera, tante sfide: qual è stato il calciatore che le ha rubato maggiormente l’occhio?
“Ho avuto l’enorme privilegio di vivere quella straordinaria parentesi del nostro campionato dove la domenica andavano di scena talenti come Falcao, Zico, Platini e l’inarrivabile Maradona; non me ne vogliano gli appassionati di altre squadre, ma Diego è stato unico; con Ameri una volta ci interrogammo circa la difficoltà a raccontare il fenomeno argentino mentre era in campo. Il numero 10 del Napoli ci metteva di fronte a dei numeri così diversi e incredibili che metteva alla prova anche il nostro linguaggio e non era facile, credetemi, trovare le parole giuste per descrivere quello che era Maradona”.
A proposito di linguaggio, che cosa si sente di consigliare ai giovani che si avvicinano al mestiere di cronista?
“I tempi sono cambiati. Oggi è molto più difficile, la generazione attuale ritengo sia più sfortunata da questo punto di vista. Non sono offerte le occasioni che c’erano invece durante la mia epoca; quello che serve è la capacità di coltivare un sogno unita all’umiltà di comprendere che questo è un mestiere che si impara nel tempo seguendo gli insegnamenti dei maestri senza cercare di sgomitare troppo perchè poi, alla fine, il talento emerge grazie al lavoro, un po’ come succede nel mondo del calcio”.
Facciamo un salto indietro: che ricordi conserva della banda Maestrelli?
“Ero poco più che ventenne, ricordo benissimo quella splendida cavalcata culminata in uno scudetto storico, di cui si parla ancora oggi. Il demiurgo di quella squadra matta e fortissima fu senza dubbio Tommaso Maestrelli. Fu lui a convincere il titubante Chinaglia, un giorno a Villa Borghese, a sposare la causa biancoceleste. Nacque un’alchimia incredibile, Tommaso in panchina e Giorgio in campo a suon di reti, grazie alla sagacia tattica di Frustalupi, al talento smisurato del giovane D’Amico, all’imprevedibilità di Garlaschelli, consegnarono alla Roma biancoceleste il primo storico tricolore. Quella famosa e afosa domenica di maggio di 48 anni fa ero al mio posto, nel parterre della curva Nord, in uno stadio stupendamente imbandierato e ribollente di passione; dalla mia posizione si vedeva poco o nulla di quello che accadeva sul rettangolo verde, per fortuna mi venne in soccorso la radio che portai con me quel pomeriggio e seguii dalla voce di Ameri i palpitanti istanti del rigore di Chinaglia, calciato sotto la Sud; Lazio Campione d’Italia, furono le magiche parole pronunciate da Enrico al termine di quella sfida contro il Foggia e subito pensai: chissà se capiterà anche a me, un giorno, di pronunciare in radio quella fatidica frase”.
Successe 26 anni dopo…
” Sì, ero a Perugia a raccontare l’ultima di campionato tra la squadra bianconera e quella di Mazzone quando si abbatté sullo stadio umbro un violento temporale che costrinse l’arbitro Collina a sospendere l’incontro; ricordo benissimo quella giornata, la lunga e snervante attesa, io in postazione e mio figlio a Roma, proprio in curva Nord, ad assistere a Lazio – Reggina. Fu una giornata surreale, indimenticabile, paragonabile solo alla notte di Berlino. Senza dubbio i miei ricordi più belli da radiocronista”.
Torniamo all’attualità: le piace la nuova Lazio?
“Sono molto ottimista. Già lo scorso anno ho intravisto cose importanti, nonostante Sarri avesse preso una squadra non modellata sulla sua idea di calcio; quest’anno mi pare che la campagna acquisti abbia seguito molto l’onda del pensiero del tecnico toscano, sono giunti alla Lazio giocatori importanti che potrebbero aiutare l’allenatore biancoceleste a disegnare un modello Lazio unico: l’errore che non si deve commettere è pensare che si debba rivedere nella Lazio di Sarri il Napoli che fu di Sarri, quello fu qualcosa di irripetibile: ripeto, sono molto fiducioso in vista della prossima stagione”.
Dopo la radio si è recentemente cimentato in Tv con la storica “Domenica Sportiva”: quali sono le differenze tra radio e tv?
“La radio è più genuina, io sono un nativo radiofonico, ai miei tempi, nei lontani anni Cinquanta, la tv era ancora al di là da venire e il calcio veniva raccontato esclusivamente in radio. E’ un mezzo che mi ha sempre affascinato, il radiocronista ha due strumenti per raccontare quello che accade in campo: la voce e gli occhi. E soprattutto ha un compito fondamentale: fare sì che quello che vede possa in qualche modo riprodursi nella fantasia di chi sta dall’altra parte dell’apparecchio. La radio è più vera e difficile, nasconde la nostra personalità, e il nostro modo di essere, il nostro apparire, non sono importanti: ciò che conta, alla radio, sono le parole”.
Articolo a cura di Stefano Ghezzi – Sportpress24.com